mercoledì 12 ottobre 2016

2011, il racconto forever

Prima dell'episodio di Black mirror e prima delle notizie di attualità sul bot che risponde come avrebbe risposto un morto nel 2011 scrissi questo racconto..

Forever
di Mauro Evangelisti

martedì 26 aprile 2016

lunedì 24 agosto 2015

i corti che escono su move magazine 34/ tegel

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Tegel A Berlino il buio è macchiato dalla luce livida dei lampioni e da una lieve striscia bianca di neve che cade. Un uomo, indifferente al freddo, percorre un marciapiede in salita, entra in un tunnel da cui esce dopo un minuto e infine svolta a destra, su una strada laterale, mentre vicino a lui scorre continuo un flusso di Golf e Mercedes quasi sempre scure. All'entrata di un palazzo di tre piani, dove lampeggia un neon rosa a forma di cuore, sorride a una donna bionda e con il seno rifatto in vista. Potrebbe avere tra i 35 e i 60 anni, è alla reception. «Settanta euro?» chiede lui in inglese. «Certo» risponde lei con un sorriso burocratico. «Non le spiego come funziona - aggiunge - perché mi sembra di averla già vista qui altre volte». «Naturalmente» dice. Riceve una chiave con scritto 237, dopo avere pagato con una carta di credito. Mentre si allontana verso gli spogliatoi, la signora della reception verifica sul computer che la sua memoria non sbaglia: da trentasei mesi con quella carta di credito è stato pagato l'accesso al club. Una volta ogni mese, non una di più, non una di meno. «Italiano...» sorride, ma quasi con tenerezza. Intanto l'uomo si è spogliato e ora mostra un corpo da trentacinquenne a cui servirebbe un abbonamento a una palestra, ma comunque non brutto. Richiude l'armadietto dove ha lasciato i vestiti, si arrotola un asciugamano ai fianchi come fosse una gonna, non ascolta le risate di tre uomini, probabilmente francesi, che parlano di una ragazza ucraina. Dentro, nella zona delle piscine distribuite attorno a un bar dove siedono molti cinquantenni, alcuni sessantenni, e gruppetti di ventenni, tutti nudi coperti solo dall'asciugamano, lui squadra le ragazze che invece non hanno nulla, solo un paio indossano dei perizoma, la maggioranza neppure quello. Alcune sono annoiate, altre sorridenti, altre ancora lanciano sguardi verso gli uomini come se cercassero il segnale per il telefonino. L'italiano però non guarda nessuno, va dritto verso una vetrata che porta a una sala dove c'è scritto restaurant. C'è un buffet, si serve da mangiare - patate lesse e del pane - e si siede all'unico tavolino libero. Negli altri ci sono almeno ottanta clienti con il solito asciugamano e una decina di ragazze, ma in quella sala c'è una sorta di sospensione della contrattazione, una tregua, si pensa solo a mangiare. Poco dopo una ragazza asiatica nuda si siede vicino a lui e taglia con puntiglio una cotoletta. Non parlano, nessuno parla in quella zona. Quando finisce di mangiare, l'uomo ripone il vassoio su un carrello in cui c'è scritto "thank you" e si avvia al bar. Si fa servire un gin tonic da un barista grosso e pelato. Poi cammina da un punto all'altro della vasta area grande come un campo da calcio. Esplora con lo sguardo le piscine, apre la porta di una sauna per vedere chi c'è dentro, entra in una sala scura. Qui su un grande schermo ci sono le immagini di un film porno, sui divanetti c'è una bionda che sta facendo un pompino a un ciccione con i capelli rossi che ansima come se stesse russando. Poi nell'ultima fila, stesa come se stesse riposando ma in realtà in una posa molto eccitante per i potenziali clienti, vede una ragazza con i capelli lunghi e corvini, le labbra carnose. Lei accenna un lieve sorriso, lui è come se avesse completato una ricerca. «Cento euro come al solito?». «Cento euro, vuoi la stanza privata come sempre?». «Certo». Il sesso tra loro dura poco, neppure quindici minuti, poi lui si stende a pancia in su, fissando le false stelle del soffitto. «Per favore, resta un altro po'» le dice. «Non posso restare molto, sto lavorando, lo sai». «Solo dieci minuti». «Solo dieci minuti». Lui le stringe la mano, lei lo lascia fare, ma non ricambia. «Forse è venuto il momento che la smetti con questo lavoro, che torni in Italia. Se vuoi ci trasferiamo in un'altra città, in un altro continente. O altrimenti vieni da me, a Birmingham, il lavoro mi sta andando bene. Qualsiasi soluzione...ma io così non ce la faccio più». «Tutte le volte, tutte le volte mi ripeti questa storia...dai, Piero...». «Io ti amo ancora, lo sai». «E io no, non ti ho mai amato». «Facciamo tornare tutto come prima». «Come prima? Ma Piero noi non siamo mai stati insieme... È da quindici anni che mi dici di essere innamorato: me lo dicevi all'università, me lo hai ripetuto quando lavoravo nell'assicurazione di tuo padre. Perfino ora che qui faccio la prostituta... E forse lo sei davvero, innamorato, non voglio ferirti. Però io non ti amo e non ti amerò mai». Per un attimo, impercettibilmente, lei gli stringe la mano. Poi lui si alza, le accarezza i capelli, le sorride, «allora ci vediamo tra un mese?». «Certo, sei un cliente, non te lo posso impedire». Piero lascia la stanza senza voltarsi e dopo quindici minuti è di nuovo immerso nel freddo di Berlino, nevica più forte. Il mattino dopo, all'aeroporto di Tegel, mentre attende l'imbarco, sul tablet cerca un volo Birmingham-Berlino per il mese successivo.

i corti che escono su move magazine 33/ il bambino sacro


copia e incolla da move magazine


di Mauro Evangelisti


Il bambino sacro

Sapevamo che l'Impero del Nord un giorno ci avrebbe attaccato, ma mai avremmo immaginato con tale crudeltà e ferocia. Iniziarono con gli atti terroristici più disumani: alcuni infiltrati fecero esplodere una decina di asili, uccidendo oltre tremila bambini. Il giorno stesso il leader dell'Impero del Nord apparve in tv e affermò: «Il grande e ultimo attacco alla Repubblica del Sud è cominciato, non avremo pietà perché questo ci chiede la storia: li stermineremo». Nei giorni successivi, nelle nostre città, altri infiltrati sparsero sangue e terrore, con attacchi rapidi e spietati. Riuscimmo a fermare, uccidendoli, solo due di loro. Spararono nei centri commerciali, misero bombe sui treni, ammazzarono con dei gas velenosi centinaia di persone nella metropolitana. Eppure, il peggio doveva ancora arrivare. Chiedemmo aiuto alle altre nazioni, spiegammo che presto l'Impero del Nord avrebbe attaccato anche loro, ma fu inutile: tutte, spaventate, rivendicarono la loro neutralità. Quando lo Stato delle Colline si limitò ad accettare un incontro con il nostro presidente, l'Impero del Nord bruciò il loro aeroporto. L'incontro fu cancellato e ci trovammo ancora più soli. Fu allora che iniziarono i bombardamenti: la nostra contraerea era impreparata, quasi ridicola di fronte a migliaia di aerei nemici che ogni giorno sorvolavano ogni angolo del paese. Gli obiettivi inizialmente furono solo militari, poi quando le nostre postazioni furono distrutte, iniziarono scientificamente a bombardare ospedali, case di riposo, scuole. E poi i monumenti, quasi a rimarcare che il nostro popolo saremmo stato sterminato e quindi anche delle testimonianze della nostra lunga storia non sarebbe rimasta traccia. Con il presidente visitai le scuole disintegrate, vidi i brandelli dei bambini uccisi, sentii le donne urlare, consolai giovani orrendamente mutilati. Stava finendo tutto e lo sapevamo. Era solo questione di tempo. Un mese dopo l'inizio della grande offensiva il presidente ci convocò nel suo bunker sotterraneo dove era stato costretto a trasferirsi per garantire ancora una parvenza di guida alla Repubblica. Eravamo una decina tra ministri e consiglieri. Malgrado la mia giovane età, io rappresentavo i servizi segreti, perché il direttore in carica era stato ucciso in un bombardamento. «Ho tentato di contattare il leader dell’Impero del Nord per chiedergli una tregua» disse il presidente con voce esitante. Tutti reagimmo con sdegno, «è inaccettabile» mi lasciai scappare. Il presidente alzò la mano, per placarci: «Non è neppure il caso di parlarne, visto che il leader ha rifiutato qualsiasi contattato e si è limitato a farmi sapere che nel giro di sei mesi il nostro popolo e la nostra nazione non esisteranno più. Da quello che ci dicono i servizi segreti - aggiunse indicando a me - tra una settimana comincerà l'invasione, centinaia di migliaia di soldati dell’Impero del Nord oltrepasseranno il confine. E per noi non ci sarà scampo». «Abbiamo solo una possibilità» lo interruppi. Tutti mi guardarono stupefatti. «Dobbiamo uccidere il bambino sacro e trasportare nel nostro territorio il suo cadavere». L'Impero del Nord da almeno trecento anni era guidato da una casta di militari che aveva forgiato il popolo secondo alcuni valori che a noi apparivano disgustosi. Nessuno metteva in discussione le scelte della giunta militare. Quando le loro bombe uccisero migliaia di nostri bambini negli asili, i cittadini dell’Impero del Nord scesero in piazza a festeggiare. Non erano forzati dal regime, ormai c'era una adesione totale al sistema. Ma in base ad un'antichissima tradizione che neppure la casta dei militari aveva osato modificare (anzi l'aveva salvaguardata perché ne vedeva l'elemento unificante del popolo) l'Impero del Nord venerava il bambino sacro. Era scelto dai sacerdoti, sulla base di alcuni principi misteriosi, e aveva tra i 2 e gli 8 anni. Al compimento dei nove anni il bambino lasciava il tempio e tornava a una vita normale, mentre il suo posto veniva preso da un altro bambino di due anni. Per il bambino sacro c'era venerazione assoluta; senza il bambino sacro l'Impero del Nord si sarebbe liquefatto, perché sarebbe venuto a mancare quell’elemento unificante. Ogni giorno centinaia di migliaia di cittadini dell'Impero si mettevano in fila per veneralo. La mia missione era semplice: entrare nel tempio, uccidere il bambino e portare il corpo nel nostro territorio. A quel punto, con il cadavere del bambino in nostro possesso, l'Impero del Nord non avrebbe mai più osato attaccarci, sempre che fosse riuscito a sopravvivere a un tale choc.
È stato molto facile, sono un ottimo agente e l'Impero è presuntuoso, non si aspettava un nostro attacco. Il servizio a protezione del bambino sacro, nel tempio, è quasi inesistente, perché nessuno lì penserebbe di attentare alla sua vita. Ho ucciso il sacerdote e ora sono solo, in una stanza con le pareti rosse, davanti al bambino sacro. Ho il coltello in mano, lo devo sgozzare. Lui ha due anni e mi sorride. Dice cose incomprensibili, mi invita a giocare con un bambolotto. Io penso ai cadaveri dei nostri bambini, alla guerra che finirà se affonderò il mio coltello nel suo ventre. Lui mi guarda, ride ancora e batte le mani.

mercoledì 15 luglio 2015

i corti che escono su move magazine 32/ quinto piano

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Quinto piano
Verso il contenuto di un barattolo di ceci in un piatto di plastica per non dovere poi lavare quello di ceramica. Ci aggiungo un po' di olio e li mangio con dei cracker. Quando ho finito, getto tutto nella pattumiera e dal frigo prendo dello yogurt alla fragola. Questo è il mio pranzo. Mi stendo sul divano, accendo la tv, mi fermo su un programma che parla dell'attacco dei giapponesi a Pearl Harbor. Lascio l'audio in sottofondo, mi metto supino e chiudo gli occhi, per un po' ascolto, poi mi addormento. Amo il mio giorno libero dal lavoro, penso prima che il sonno prenda il sopravvento. Mi sveglia il suono, acuto, del campanello. Tre driin, poi due colpi alla porta decisi. Non viene mai nessuno a casa mia, cosa sta succedendo? Decido di non aprire, ma i colpi alla porta si fanno più violenti. Mi alzo, chiedo chi è, mi risponde una voce dal vago accento straniero. «Apra, mister Antonio, è importante». Apro, la voce è rassicurante. L'immagine che si presenta meno. Un uomo enorme, almeno due metri, robusto, con i capelli lunghi legati in una coda, i lineamenti asiatici. Indossa un completo scuro. Indossa occhiali con una montatura nera che mitigano l'aggressività dell'aspetto. Vicino a lui c'è un gatto scuro, ma non è un gatto normale. È molto grande, quasi come un leoncino, ma so che è un gatto. «Dobbiamo parlarle di un argomento di estrema importanza, però è meglio se chiudiamo la porta». Mi gira la testa, so che non sto dormendo e dunque non sto sognando, ma a parlare è il gatto, non l'omone asiatico. E visto che la voce è la stessa, aveva parlato lui anche quando la porta era chiusa. Mi rivolgo all'omone, perché mi pare assurdo dialogare con un gatto e gli chiedo: «Ma cos'è? Un pupazzo? È qui per vendermelo? Io non ho bambini». Il gatto sbuffa come se gli stessi facendo perdere tempo, l'omone si limita a rispondere: «Si chiama Murakami ed è un gatto vero». Poi lui e il gatto si siedono sul divano, mentre io resto in piedi. «La cosa di cui dobbiamo parlare è di estrema importanza - dice il gatto - per cui per favore non perdiamo tempo con particolari secondari. Concentriamoci su ciò che è davvero interessante». Prendo una sedia e ascolto, non so cosa altro si debba fare quando un gatto ti parla. «Lei mister Antonio conosce la signorina Paola, vero? Siete stati fidanzati tredici mesi, se non sbaglio. E vi siete lasciati....mi faccia pensare...». Alza gli occhi verso il cielo, come se stesse facendo un calcolo. «47 giorni fa» gli suggerisce l'omone, sussurrando. «Sì, 47 giorni fa». Io inizio a tremare, parlare di Paola mi fa questo effetto, non perché la ami ancora, ma per quello che è successo dopo che ci siamo lasciati. «In realtà lei ha lasciato la signorina Paola - prosegue il gatto - e ciò che è successo dopo è assai spiacevole». Il gatto fa una pausa, non capisco se è perché anche lui è addolorato o perché ha perso il filo del discorso. «Dal quinto piano» sussurra l'omone. «Sì, ecco, la signorina Paola si è gettata dal quinto piano. È da allora è in coma. Noi ipotizziamo che l'abbia fatto perché lei l'ha lasciata, per quanto appaia irragionevole che qualcuno possa ritenere uno come lei, mister Antonio, così importante». «E anche lei, mister Antonio, pensa che si sia gettata dal quinto piano per il dolore causato dalla sua decisione di interrompere la vostra storia» aggiunge l'omone. Restiamo in silenzio, per alcuni minuti, sul mio viso scorrono delle lacrime, ma non le asciugo. Riprende a parlare il gatto: «Ora le diamo la possibilità di rimediare. Andrà a recuperare la signorina Paola, la convincerà a risvegliarsi dal coma. Solo lei può farlo». Sono salito in macchina con loro, una vecchia Fiat Multipla, ci siamo seduti tutti e tre davanti. L'omone ha guidato lento e senza scossoni per un paio di ore, durante le quali siamo rimasti in silenzio, mentre il lettore cd ha trasmesso tre differenti album di Laura Pausini. A un certo punto non ho riconosciuto il paesaggio. Ci siamo fermati ai margini di un bosco. «Vada, la troverà». Ora siamo circondati da alberi altissimi. Paola ride: «Ma tu pensi che mi sia gettata dal quinto piano per te?». «Ma anche il gatto lo pensa...». «Chi?». «Niente, niente, comunque io volevo chiederti di tornare, di risvegliarti». Lei ride più forte. «Ma tu non c'entri nulla, io stavo con te perché non avevo alternative. Ma mica ti amavo. Quando mi hai lasciato, ho semplicemente realizzato che ero davvero sfortunata, perché nella mia vita non succedeva mai nulla di bello, e perdevo perfino un uomo inutile come te. Tutto qua. E tu non puoi certo chiedermi di risvegliarmi. Deciderò io se farlo, e ancora non ho deciso». Se ne va, io resto solo nel bosco, più oscuro di prima. Non si è gettata dal quinto piano per me, penso. Nessuno si getterebbe dal quinto piano per me. Mi sento irrimediabilmente inutile. Voglio restare in questo bosco. Mi ritrovo steso sul divano. Mi alzo, vado sul balcone, piove. Siamo al quinto piano.

sabato 11 luglio 2015

i corti che escono su move magazine 31/ spegni e riaccendi

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Spegni e riaccendi
Sapevamo che sarebbe successo. All’inizio degli anni Duemila qualcuno lo previde, anche se ne tracciò i contorni in modo confuso. All'inizio furono solo le pagine dei social delle persone morte che, per una scelta fatta ancora in vita, continuavano ad avere una sorta di normale attività. Un software elaborava le opinioni dal possessore del profilo, le frasi pronunciate, le foto scattate, i dialoghi, le mail spedite e ricevute, gli acquisti, i libri letti. In base a tutti questi dati la pagina si aggiornava come se a scrivere fosse la persona morta, che continuava ad esistere e a interagire. Il sistema divenne sempre più potente e sofisticato, consentiva al "nuovo vivo" - la definizione scelta per questa forma di esistenza - di relazionarsi in modo sempre più incisivo con la realtà: poteva dialogare in chat, anche su fatti avvenuti dopo la morte perché il sistema, sulla base di tutte le conversazioni avvenute prima di morire, era in grado di simulare ciò che avrebbe detto di fronte a un determinato evento. Il "nuovo vivo" poteva spedire una commovente lettera di condoglianze all'amico che aveva perso il padre («io più di altri ti posso confermare che tutto non finisce con la morte») o di rallegramenti alla figlia a cui era nato un bambino («dalla foto che hai caricato sul social vedo che mi assomiglia»). Filosofi e leader religiosi si scagliarono contro questo sistema che giorno dopo giorno si moltiplicava, ma i politici, le cui campagne elettorali venivano finanziate dalla multinazionali dei social, sostennero che non si poteva limitare la libertà dei cittadini. Nel 2050 il sistema di "continuazione della vita" (un anno prima era stato proibito di definirlo "simulazione della vita") ebbe nuovi potenziamenti: chi voleva poteva consentire una elaborazione del proprio cervello e del sistema nervoso per rendere ancora più realistiche le reazioni da "nuovo vivo". Nei database furono anche immagazzinate le informazioni sui familiari. Fu introdotta questa possibilità anche per i bambini morti precocemente, che di fatto crescevano da "nuovi vivi". E mentre il numero dei "nuovi vivi" aumentava, si rafforzava la loro capacità di influenza: sempre più autonomi, queste esistenze incorporee scrivevano libri, partecipavano al dibattito politico, non di rado maturavano posizioni differenti da quelle che avevano in vita. Verso la fine del secolo fu approvata una legge che assegnò loro piena personalità giuridica, consentiva loro di mantenere il patrimonio economico che avevano accumulato da "vecchi vivi". Un gruppo di ”nuovi vivi”, molto ricchi, con un colpo a sorpresa acquisì la maggioranza della corporation a cui faceva capo il social. I ”nuovi vivi” ora erano padroni del ”nuovo mondo”. La corporation iniziò una politica di espansione più spregiudicata. Opinionisti, scrittori e da allora perfino alcuni leader religiosi cominciarono a sostenere prima in modo provocatorio, poi con convinzione, che la vita vera - l'anima fu la definizione che prese forza - era quella senza corpo dei nuovi vivi”. Quella precedente, quella corporea, era solo una fase di preparazione, un sistema di raccolta dati che avrebbe consentito di vivere in eterno, senza il fardello del corpo con suoi malanni. L'anno dopo fu eletto il primo presidente "nuovo vivo". I corporei si sentirono sempre più minoranza, la vita sociale ormai si sviluppava quasi interamente in rete. Nella vita corporea rimasero solo l’attività sessuale, necessaria alla riproduzione, e il lavoro utile al mantenimento dei sistemi di elaborazione. Nel 2110 il secondo presidente "nuovo vivo" annunciò la decisione di attaccare e distruggere con armi atomiche tutti i paesi che non avevano ancora aderito al progetto dei "nuovi vivi”, che continuano «a vivere in forma barbara, rubando preziose risorse a chi ha saputo costruire una evoluzione evidente, nei fatti, che ha salvato l'uomo dalla morte e gli ha donato l'eternità». Ai più sembrò una decisione ragionevole, gli stati in cui la maggioranza dei cittadini erano "vecchi vivi" rappresentavano il passato; allo stesso modo gli spagnoli e gli inglesi sterminarono le antiche popolazioni delle Americhe, era il momento di preparare il pianeta a un unico sistema, quello dei "nuovi vivi", alimentato per l'eternità, con la vita intellettuale e sentimentale slegata dalla parentesi della vita corporea. Ciò che i "nuovi vivi" non avevano previsto è che i conflitti di potere sarebbero esplosi anche nella rete, tra le nostre anime. Da pochi giorni è iniziata una guerra tra i primi "nuovi vivi" e quelli arrivati nei decenni successivi. Il sistema sta impazzendo, i dati si stanno cancellando e stanno morendo di fame anche i corporei. Sta finendo tutto. Sono trascorsi dieci anni: sono l'ultimo corporeo in vita, il sistema dei ”nuovi vivi” ormai è senza controllo, impazzito e anarchico. Ora tutto dipende da me: sto fissando da giorni un pulsante. Spegni e riaccendi.

mercoledì 10 giugno 2015

i corti che escono su move magazine 30/ l'amore ai tempi delle foto di carta

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

L'amore ai tempi delle foto di carta

Nel giorno del suo trentacinquesimo compleanno, quando ormai da venti mesi vivono insieme, Paride le dice che vuole tornare dalla moglie, è stato un errore lasciarla. Carla non lo ascolta più, sta elaborando una rapida contabilità di quindici anni di fallimenti: il fidanzato dei tempi dell’università che la lasciò mentre erano in vacanza a Santorini; il professore che la corteggiò con intelligenza e leggerezza, poi si trasformò in uno psicopatico, fu costretta a denunciarlo per stalking; l’iscrizione al sito per rimediare sesso e sentirsi meno sola, si cancellò dopo che uno le lasciò sul comodino 300 euro. Fino all’incontro con Paride, l’agente immobiliare che l’aveva aiutata ad affittare l’appartamento, che le aveva parlato per ore del suo matrimonio che si era trasformato in un incubo di inutilità, gli abbracci, le fughe, lui che lascia la moglie, l’idea di fare un figlio, la casa insieme. Ed ora Paride se ne va. In fondo l’aveva previsto. Esce dal ristorante senza dire nulla. Fuori, in un vicolo, si accascia a terra e piange. Una mano delicata sulla spalla. Alza lo sguardo, è un ragazzo, le parla con un accento inglese, un turista, le chiede se può aiutarla. Forse tutto è successo per arrivare a questa scena, all’incontro con gli occhi miti di quel ragazzo, lei gli racconta tutto, lui la butta a terra, le salta addosso, non erano occhi miti, erano da ubriaco. Gli sferra una ginocchiata, corre alla macchina e va da Raffaella, l’amica dai tempi del liceo che le chiede scusa per la confusione, ma i due figli sono dei pazzi furiosi. Ridono. Carla racconta cosa le è successo, conclude che a 35 anni è attesa da una caduta libera, da sola. «Certo che sei proprio sfigata – dice Raffaella – qualcuno deve averti lanciato una maledizione, una stregoneria…». Raffaella lo dice per allentare la tensione, ma Carla si alza, l’abbraccia e se ne va. «Devo scappare». A casa apre i cassetti, trova un vecchio album. 1998, ultimo anno del liceo, allora si stampavano ancora le fotografie. Eccolo: Edoardo, anzi Edo come lo chiamavano in classe. Ottimo giocatore di basket, non brutto, timido, ma poco interessante pensava Carla. Nessuno se ne accorse, ma per tre anni le chiese di diventare la sua ragazza; fiori, cd, inviti a cene nelle quali parlavano a lungo. Ci fu solo una volta che lo baciò. Il giorno dopo Edo andò a cercarla a casa, con un regalo. Lei si era pentita di quel bacio: «Ieri ho fatto una cazzata.
È meglio se non ci vediamo più da soli». «Ma io ti amo». «E io no, cosa ci vogliamo fare?». Lui si voltò per nascondere le lacrime, si avvicinò al cancello poi le puntò il dito: «Tu non sai amare chi ti ama, infelice, sempre. Non troverai la persona giusta, non la sai riconoscere. Ti piace solo la merda e sarà sempre così. Tra quindici anni ti ricorderai di queste parole». Edo cambiò scuola. Non lo vide più. In meno di trenta minuti, incrociando amicizie comuni, profili Facebook, numeri telefonici in rete, Carla trova l’indirizzo di Edo. Scopre che ripara le caldaie, che è single, che ha militato nel Movimento 5 Stelle ma poi ha litigato con gli altri attivisti. «Lo stesso brutto carattere», pensa. Carla va a casa sua, suona, una, due, tre volte. Si presenta un tipo con i jeans, la maglietta con il nome della ditta di caldaie, la pancia, la barba lunga, capelli spettinati. «Se è per la caldaia deve passare in ufficio. Che è sempre qui, ma oggi non lavoro». «Edo, sono Carla, ti devo parlare». A lui casca la mela che ha in mano. La fa entrare e Carla vede quotidiani per terra, piatti e panni sporchi. «La donna delle pulizie viene domani». «Non importa. Ti devo chiedere un favore: annulla la maledizione». «Hai la caldaia rotta?». «No, cazzo, la maledizione, la frase che mi dicesti quindici anni fa, che mi sarebbe andato tutto male con gli uomini e che mi sarei ricordata di quello che stavi dicendo. Beh, sta succedendo. Te lo chiedo con il cuore in mano, ti pago: se era una maledizione, annullala, perché sta funzionando». Carla piange, quanto è stupido ciò che sta dicendo.
Edo gelido: «Ti sembra che a me le cose siano andate meglio? Mi vedi? Dimostro dieci anni di più, guarda in che appartamento vivo. E tutto perché sono ancora convinto che quella fosse la nostra occasione e non ne avremo un’altra. Vattene, è stata tutta colpa tua». Carla emette un ultimo singhiozzo, apre la porta. «Fermati, fermati – le dice lui – senti, io ti amo ancora e ti amerò sempre. Non voglio il tuo dolore. Magari è una cosa stupida, ma se ti può servire, beh, lo dico: ti tolgo la maledizione, sarai felice, incontrerai l’uomo giusto». Carla sussurra «grazie» e va via. Edo si siede sul divano, accende la tv, su Sky Sport ci sono le semifinali dell’Nba, piange, come non aveva mai fatto da quindici anni. Di nuovo il campanello. Apre, è Carla. Lo abbraccia, lo bacia, lo trascina fino al divano, sembrano due diciottenni. La maledizione non c’è più, Carla ha riconosciuto l’uomo giusto. Pare.

venerdì 29 maggio 2015

Boccea e dintorni


di Mauro Evangelisti

Tra i tanti cartelli apparsi dopo l’incidente mortale di Boccea provocato da tre rom in fuga dalla polizia, ce n’è uno che sta girando molto sui social netowrk (in casi così su Facebook e Twitter si scatena l’inferno, scompaiono gattini e tramonti, appaiono le tribù con i colori di guerra): «E adesso ditelo alle famiglie che state lavorando per l’integrazione». Certo, chi l’ha scritto è in buona fede. C’è solo un problema: Corazon, la signora filippina morta, stava costruendo una vita migliore insieme al marito per le figlie proprio grazie al valore dell’integrazione. E dell’accoglienza (sì, di questi tempi sembra una parolaccia ma per rispetto della memoria di Corazon anche questo sostantivo va scritto). Se non ci fossero state integrazione e accoglienza, Corazon non avrebbe potuto lottare per una vita migliore in Italia e mandare aiuti ai parenti nelle Filippine. La risposta di molti è che bisogna anche parlare di chi rifiuta di integrarsi, di chi respinge regole e leggi della nostra società. Verissimo. E tanti errori sono stati commessi: soldi buttati, ingenuità, molti, come dimostra l’inchiesta su Mafia Capitale, hanno lucrato su tutto questo. Ma dovremmo essere maggiormente orgogliosi dei valori che Roma e l’Italia, pur tra mille disagi, errori e fallimenti ha provato a difendere. E nonostante tutto ci prova ancora. C’è un rom che è scappato, ma ci sono tanti stranieri come Corazon che amano l’Italia e che hanno imparato a rispettarla. Retorica? Perché gli slogan di chi semina odio sono originali?

mercoledì 27 maggio 2015

i corti che escono su move magazine 29/ bailando

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Bailando

L’idea era stata di Sandro ma questo Andrea alla madre non l’aveva detto, lo avrebbe accusato di lasciarsi sempre convincere dagli altri quando c’era da fare una sciocchezza. «In Thailandia? Ma stiamo scherzando. Con tutte le guerre che ci sono per il mondo, il terrorismo, gli aerei che cadono, tu dove pensi di andare a 20 anni? Non se ne parla». Andrea era diventato rosso in volto, ma molto rosso, come sempre succedeva quando litigava con la madre. Era l’effetto di uno scontro che divampava dentro: una parte di lui avrebbe voluto rassicurare la madre, dirle che aveva ragione, che non sarebbe andato, che non l’avrebbe fatta soffrire, che per tanti anni erano stati solo lui e lei, visto che il padre era come se non esistesse; ma era anche furioso perché si sentiva legato indissolubilmente alla madre, avvertiva che non si sarebbe mai liberato e invece voleva correre, anche se non sapeva dove. Un tempo la prima parte di lui vinceva quasi sempre, ora l’equilibrio stava cambiando. «Io vado – disse con una determinazione nuova che spaventò e rattristò la madre – i soldi non me li devi dare tu, vado a lavorare per un po’ prima dell’Università». Alla fine erano stati i genitori di Sandro, che da sempre viaggiavano in ogni spicchio del mondo con il figlio, a rassicurarla: «Sono due ragazzi con la testa sulle spalle. Sono posti sicuri, stia tranquilla, ci siamo stati tante volte. E poi esistono i telefoni, Skype… vedrà, Andrea lo sentirà tutti i giorni. Ma è giusto che imparino a viaggiare da soli». La madre di Andrea sapeva che avevano ragione, ma faticò a tranquillizzarsi. Non consentì al figlio di andare a lavorare, fu lei a dargli i soldi. Andrea ringraziò con un grugnito, umiliato per quell’azione di supporto dei genitori di Sandro. All’aeroporto era rimasto immobile nell’accogliere il suo abbraccio, mentre il padre di Sandro gli aveva mollato uno scappellotto pure a lui, scherzando «non più di tre birre al giorno». In aereo Sandro lo aveva rimproverato: «Certo che potevi essere un po’ più gentile con tua madre. Non ti vedrà per due settimane». «Mi sono rotto. Come se avessi ancora 8 anni… Non potrò restare con lei per sempre». «E dai, sei il suo unico figlio, è normale». «Guarda, appena posso vado a vivere da solo». «Sì, vabbè…».
Durante la vacanza non ne avevano più parlato, c’erano troppe esperienze da fare, vicoli e stradoni di Bangkok da percorrere come padroni del mondo, tenendo dentro il timore di un luogo sconosciuto: odori strani, il caldo che ti picchia, le urla in una lingua strana, i cocktail nuovi da provare, le discoteche in cui conoscere ragazze australiane, la Lonely Planet da studiare, per decidere la prossima tappa, tra Krabi e Phuket. Optarono per la spiaggia di Ao Nang, a Krabi, e per una settimana erano state altre birre, escursioni in barca da una isoletta all’altra. «Potrei restare qui per sempre» disse un giorno Andrea steso in spiaggia, vicino un libro di Stephen King. Gli unici momenti di tensione c’erano attorno alle 2 del pomeriggio, per la ricerca di una rete wi-fi decente perché Andrea potesse collegarsi a Skype e telefonare alla madre. La linea era disturbata, lei non sentiva, lui si innervosiva, ripeteva «qui va tutto bene», ma era infastidito perché era come se tutta la giornata della madre ruotasse intorno a quella telefonata. «Ma perché non si accontenta di WhatsApp come i tuoi genitori?» si lamentava con Sandro.
La penultima sera l’amico vomitò a causa di una sbornia e restò in hotel. «Tu vai, tranquillo». Andrea ormai sapeva dove trovare i locali migliori, dove c’era la musica dal vivo o un biliardo per sfidare qualche thai. Si fermò al Chang, un bar dove si ballava, vide una ragazza thailandese che tutte le mattine gli preparava il caffè allo Starbucks, le offrì uno shot di tequila, e ancora birra e poi birra. Il suo sorriso gli era piaciuto sin dal «here or take away?» del primo giorno. Tutto perfetto, poi il dj mise una vecchia canzone di Enrique Iglesias, Bailando. Tutti iniziarono a dimenarsi, lui invece sentì, improvvise, affiorare le lacrime. Era la canzone preferita di sua madre, ricordò quel rituale di lei che ascoltava per caso brani nuovi e gli chiedeva di scaricare gli mp3 sul tablet; «sei proprio una palla» le diceva lui, ma in fondo gli faceva piacere. Bailando era la canzone che la rendeva più allegra, la metteva a tutto volume, a volte la ballavano insieme. Chiese la password per il wi-fi a un cameriere, provò a collegarsi su Skype per chiamarla, ma la rete era scadente. La thailandese lo vide in lacrime, come un bambino. «Sei sbronzo?». Sì, un po’ era sbronzo, altrimenti non le avrebbe confidato: «Vorrei telefonare a mia madre ma Skype non funziona e non ho credito nel telefono». Lei gli allungò il suo telefonino. «Usa il mio, tranquillo, poi mi offri una birra». La madre si preoccupò quando vide apparire quel numero sconosciuto, fu però felice di sentire Andrea che le spiegava che stava bene, che la vacanza era finita, che stava per tornare, che lì era tutto bellissimo, che sentiva la sua mancanza.

domenica 17 maggio 2015

i corti che escono su move magazine 28/ un eroe dei nostri tempi

copia e incolla da move magazine

di Mauro Evangelisti

Un eroe dei nostri tempi


Ho sentito l'aria muoversi, la pallottola accarezzarmi un braccio, ho capito che dovevo correre e saltargli addosso prima che sparasse un'altra volta. Ho sperato che non mirasse al bambino, che la gente dentro al centro commerciale fosse riuscita a mettersi al riparo, «correte via» avevo urlato, quando avevo visto il tizio puntare la pistola e iniziare a sparare alla cieca. E poi ricaricare e poi sparare ancora. Qualcuno doveva fermarlo, e io sono un agente della vigilanza del centro commerciale. C'era un gruppo di bambini, sono corso, ho urlato, ho sentito la carezza della pallottola, e alla fine gli sono saltato addosso e quasi l'ho schiacciato con il mio peso. La pistola è schizzata via, l'ho tenuto fermo. Ci sono stati venti secondi di silenzio, poi prima piano, infine scrosciante, c'è stato un applauso. Ero un eroe. Qualcuno aveva ripreso tutto con un cellulare, il video è stato trasmesso anche dalla Cnn. Per tre giorni ho dovuto parlare di fronte alle telecamere, rispondere alle telefonate dei giornalisti, stringere la mano al sindaco che mi ha premiato, incontrare il primo ministro che mi ha detto «il paese per rialzarsi ha bisogno di persone come lei». Quando andavo al bar a prendere il caffè gli altri clienti mi stringevano la mano, quasi commossi. Io non avrei voluto tutta questa luce su di me, avrei voluto solo partire per le ferie come era già stato programmato prima che tutto accadesse, ma i capi della società di vigilanza e quelli del centro commerciale mi avevano spiegato che non potevo tirarmi indietro. La società di vigilanza e il centro commerciale erano entrambi in crisi, con la pubblicità che questa storia stava regalando avrei salvato molti posti di lavoro, mi dicevano. E io non me la sono sentita di dire no. Un giorno un giovane politico della minoranza del Pd con la erre moscia ha detto in TV «il sindaco non si faccia strumentalizzare da una guardia giurata in cerca di pubblicità», una giovane politica di destra ha detto in TV «la guardia giurata non si faccia strumentalizzare dal sindaco». E l’indomani sulla prima pagina della cronaca cittadina di un quotidiano è apparso il commento di un giornalista: «Ma si può dire che non ne possiamo più del presenzialismo della guardia giurata? Questa città non ha bisogno di eroi, ma di persone che lavorino in silenzio, apprezzando la bellezza dei suoi tramonti». Non ho capito cosa volesse dire. Su Facebook ho cominciato a notare le prime frasi strane «basta con questo cavolo di vigilante», «ma voi pensate che sia davvero una storia vera? Il centro commerciale stava per fallire, hanno inventato tutto», «è stato un incosciente, se quello avesse sparato ai bambini?». All'ultimo post ho risposto. Ho scritto: «Ma che cazzo dici? Quello STAVA per sparare ai bambini». Il mio capo si è infuriato, «non devi usare quel linguaggio». Su Facebook molti mi difendevano, ma i messaggi cattivi aumentavano, se prima erano 95 a mio favore e 5 contro, ora erano 60 e 40. «Si è montato la testa». Io in realtà avrei semplicemente voluto che non si parlasse di me. Un giorno mi ha aspettato fuori da casa di mia madre un comico di un programma satirico, ha cominciato a inseguirmi con il microfono, chiedendomi se fosse vero che era tutta una messinscena per salvare il centro commerciale, io sono scappato perché non ne potevo più di rispondere alle domande e perché mi cresceva la rabbia, mi sentivo insultato. Ma lui mi ha rincorso al bar, perfino al gabinetto, alla fine gli ho risposto, ma nella foga ho sbagliato un congiuntivo. Il programma ha mandato in onda il mio errore, con le risate finte sotto. Su Facebook tutti lo hanno condiviso. Paola, la mia fidanzata, mi ha lasciato, un po' perché la nostra storia era già zoppicante, un po' perché non sopportava il casino che ci perseguitava quando uscivamo insieme. Il mio capo della società di guardie giurate mi ha preso da parte, mi ha detto che al centro commerciale non potevo più lavorare perché tutto stava diventando molto imbarazzante, non se la sentiva di mandarmi via ma mi ha chiesto di cercarmi un altro posto. Un giorno un ragazzo con il codino, vicino al negozio di telefonini del centro commerciale, ha cominciato a urlarmi «ma guarda sta merda di violento che stava per fare uccidere i bambini, a Rambo tornatene a casa», la gente che passava restava indifferente, ma qualcuno ha detto che il tipo aveva ragione. Un altro si è messo a riprendere con l'iPhone la scena, io sono divenuto rosso in faccia e l'ho spinto a terra. La sera stessa anche quel video era ovunque: su Facebook, sui siti Internet, al telegiornale. La domenica, in un programma di un network privato, una presentatrice illuminata come fosse la Madonna mi ha insultato, ha detto che avrei dovuto chiedere scusa e che anche il sindaco avrebbe dovuto vergognarsi per avermi premiato. Sullo sfondo c'era la mia foto gigante e la scritta "Finto eroe". Il giorno dopo il mio capo mi ha spiegato che non poteva più difendermi. Sono finito a fare il guardiano in questo quartiere industriale. La notte lavoro, il giorno dormo, e la mia vita è tutta qui. Ora capisci perché, quando ti ho sorpreso mentre aprivi la cassaforte di questa fabbrica e mi hai offerto, quasi piangendo, di fare a metà, ti ho detto di sì?

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